La disfatta di Caporetto
Anche l'Italia attraversa un anno difficile e tra maggio e settembre Cadorna ordina una serie di offensive sull'Isonzo che non ottengono nessun risultato risolutivo, anzi generano insubordianzione nelle file dei soldati e malcontento nell'intera popolazione civile.
Tra il 22 e il 26 agosto del'17, scoppia una protesta popolare
per la mancanza del pane che si trasforma in una sommossa, con
forte partecipazione operaia, che segna il punto definitivo di
rottura.
Gli austro-tedeschi decidono di infliggere un colpo decisivo
all'Italia e il 24 ottobre 1917 un'armata austriaca, rinforzata da
sette divisioni tedesche, attacca le linee italiane sull'alto
Isonzo e le sfonde nei pressi del villaggio di Caporetto.
Gli attacchi proseguono fino al Friuli per mezzo della tecnica di
infiltrazione che sbaraglia il nemico, mettendo in crisi il suo
schieramento.
La manovra militare degli austro-tedeschi risulta enormemente
efficace e gli italiani per non essere accerchiati devono
abbandonare le posizioni che tenevano all'inizio della guerra. Dopo
due settimane di marcia, gli italiani riescono a stanziarsi sulla
nuova linea difensiva del Piave, lasciando in mano al nemico circa
10.000 kmq di territorio italiano.
La disfatta di Caporetto ha delle ripercussioni positive
sull'andamento della guerra italiana: le forze politiche sono tutte
concordi nel voler condurre una guerra difensiva, tollerando che
una buona parte del suolo italiano cada in mano al nemico.
Anche il morale dell'esercito subisce degli effetti positivi,
grazie all'opera del nuovo comandante Armando Diaz, che offre ai
soldati delle condizioni migliori di vita: vitto più
abbondante e licenze più frequenti.
Si realizza anche un'opera di propaganda tra i soldati: i
cosiddetti giornali di trincea che, affidati a degli ufficiali
inferiori e a numerosi intellettuali di prestigio, prospettano,
oltre alla possibilità di vantaggi materiali di cui il paese
godrebbe in caso di vittoria, l'idea di una guerra democratica,
annunciata dagli interventisti di sinistra e dal presidente
americano Wilson.
Lenin e Wilson: due visioni diverse della guerra
Tra il 6 e il 7 novembre 1917 i bolscevichi, con un colpo di
mano, rovesciano in Russia il governo provvisorio, sostituendolo
con uno rivoluzionario presieduto da Lenin.
Il 3 marzo 1918, il nuovo governo stipula con gli imperi centrali
la pace di Briest-Litovsk, in cui la Russia cede un quarto dei suoi
territori europei.
La pace per l'ex Impero russo è veramente umiliante, ma Lenin riesce a dimostrare, nonostante le forti perdite, la possibilità di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione.
Dall'altra parte i paesi dell'Intesa cercano di controbilanciare
la tesi di Lenin presentando la guerra come una crociata della
democrazia in opposizione all'autoritarismo degli imperi centrali e
all'imperialismo austro-tedesco, sempre dominante nell'intera
Europa.
Tale concezione viene fortemente sostenuta da Woodrow Wilson che
dichiara l'intento degli Stati Uniti di non combattere per
particolari rivendicazioni territoriali, ma solamente in
virtù della difesa dei diritti delle nazioni e al fine di
stabilire un nuovo ordine internazionale.
Wilson pubblica nel gennaio del 1918 un programma di pace che
riassume in "quattordici punti": l'abolizione della diplomazia
segreta, il ripristino della libertà di navigazione,
l'abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli
armamenti, piena reintegrazione per il Belgio, la Serbia e la
Romania, evacuazione dei tedeschi dai territori russi, restituzione
dell'Alsazia-Lorena alla Francia, sviluppo autonomo per i popoli
soggetti all'Impero austro-ungarico e a quello turco, rettifica dei
confini italiani secondo le linee delle nazionalità e infine
l'istituzione delle "Società delle nazioni".
1918: l'ultimo anno di guerra
All'inizio del 1918 la guerra si gioca principalmente sul fronte francese: i tedeschi tentano l'ultima offensiva, impegnando tutte le risorse disponibili, conseguite dalla firma della pace con la Russia.
Alla fine di marzo i tedeschi riescono a penetrare fra Saint
Quentin e Arras, avanzando in territorio francese per una
profondità di oltre cinquanta chilometri.
Verso giugno i tedeschi sono nuovamente sulla Marna, pronti a
colpire Parigi con i cannoni mentre gli austriaci, attaccando sul
Piave il fronte italiano, vengono sconfitti dopo una settimana di
forti combattimenti. Anche i tedeschi subiscono sulla Marna una
durissima sconfitta.
Ormai inferiori, sia per numero e sia per armi, rispetto ai
paesi dell'Intesa, i tedeschi vengono attaccati fra l'8 e l'11
agosto e poi sconfitti nella grande battaglia di Amiens. Le truppe
tedesche iniziano così la ritirata, i generali comprendono
di aver perso la guerra in maniera definitiva e lasciano la
responsabilità dell'armistizio nelle mani dei politici, con
la speranza di conservare l'integrità del territorio
nazionale e del potenziale bellico scampato alla disfatta.
Il nuovo governo tedesco di coalizione democratica cerca in tutti
modi di giungere ad una situazione di compromesso coi paesi
dell'Intesa, ma ben presto si accorge che tutti i suoi alleati
crollano per ragioni interne.
Prima fra tutti cede la Bulgaria, poi è il turno
dell'Austria-Ungheria, che stravolta dalle lotte indipendiste dei
vari movimenti nazionali, firma a Villa Giusti, presso Padova,
l'armistizio con l'Italia. L'11 novembre tocca alla Germania, i
suoi delegati firmano l'armistizio nel villaggio francese di
Rethondes, accettando le durissime condizioni poste dai paesi
dell'Intesa: consegna dell'armamento pesante e della flotta, ritiro
delle truppe oltre il Reno, annullamento dei trattati con la Russia
e la Romania e restituzione unilaterale dei prigionieri.
La costituzione della carta politica d'Europa
Nel gennaio 1919 si aprono i lavori nella reggia di Versailles a
Parigi e si protraggono per oltre un anno e mezzo. Bisogna
ricostruire la carta politica del continente, rimasta immutata per
oltre un secolo e mezzo e sconvolta dal crollo degli imperi
tedesco, austro-ungarico, russo e turco.
Aperta la conferenza si decide di tener conto dei quattrodici punti
di Wilson e di rispettare, nel tracciare le nuove frontiere, il
principio di nazionalità e di volontà delle
popolazioni interessate. Nella pratica tale scelta non è per
nulla facile, infatti si rischia, da un lato, di far esplodere
nuovi irredentismi, per via di gruppi etnici spesso intrecciati fra
loro e, dall'altro, di omettere la giusta punizione per gli
sconfitti, ritenuti responsabili della guerra.
Le discussioni fra i capi di governo vertono sulla scelta di
adottare l'idea di una pace democratica piuttosto che quella di una
pace punitiva.
Dopo tanti contrasti, il primo trattato di pace con la Germania
(definito dai tedeschi come un Diktat) viene firmato il 28 giugno
1919: si tratta di una vera e propria imposizione, subita sotto la
minaccia dell'occupazione militare e di blocco economico.
Dal punto di vista territoriale il trattato prevede la restituzione dell'Alsazia-Lorena alla Francia e il passaggio alla Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l'alta Slesia, la Posnania e una striscia della Pomerania, che consente alla regione polacca di affacciarsi sul Baltico e sul porto di Danzica.
Ma il Diktat assume un carattere intransigente per via delle clausole economiche e militari imposte: la Germania si impegna a riparare ai vincitori i danni della guerra, ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina, ad alleggerire le dimensioni dell'esercito e a smilitarizzare tutta la valle del Reno, che sarà occupata in seguito, per quindici anni, da truppe inglesi, francesi e belghe.
Le sorti della nuova repubblica d'Austria vengono affidate alla
costituenda Società delle Nazioni, il suo territorio viene
ridotto ad appena 85.000kmq. Anche l'Ungheria, costituitasi in
repubblica nel novembre del'18, perde tutte le regioni slave e
alcuni territori abitati da popolazioni magiare.
Del crollo dell'Impero austriaco traggono profitto, oltre
all'Italia, tutti i popoli slavi. I polacchi della Galizia si
uniscono alla nuova Polonia, i boemi e gli slovacchi entrano nella
Repubblica di Cecoslovacchia. Gli abitanti della Croazia, della
Slovenia, e della Bosnia-Erzegovina si uniscono a Serbia e
Montenegro, dando vita alla Jugoslavia.
Più difficili sono i rapporti tra gli Stati vincitori e
la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali, infatti, non
riconoscono l'armistizio avvenuto tra Germania e Russia, e
impongono l'annullamento del trattato di Brest-Litovsk, aiutando
nel frattempo i movimenti controrivoluzionari nell'opera di
contrasto della neonata Repubblica socialista.
Vengono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche
indipendenti che si erano costituite con l'aiuto dei tedeschi nei
territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l'Estonia, la
Lituania e la Lettonia. Territorialmente la Russia è
circondata quindi da una cintura di Stati-cuscinetto (il cosiddetto
cordone sanitario), che essendo fortemente ostili alla Russia ne
bloccano ogni spinta espansionistica.
Dalla conferenza di Parigi si contano ben otto nuovi imperi e
nel 1921 verrà costituito anche lo Stato libero d'Irlanda,
cui la Gran Bretagna concederà un regime di
semi-indipendenza.
Nel nuovo corso storico, la difficoltà principale che devono
affrontare i vincitori è quella di dover garantire la
sopravvivenza del nuovo assetto territoriale, reso delicato dalla
miriade di Stati indipendenti e dalla scomparsa di quegli imperi
facente parte del vecchio equilibrio prebellico.
Secondo il parere di Wilson e le speranze di tutti i pacifisti
l'unica istituzione idonea a garantire l'equilibrio e la pace
europea è proprio la Società delle nazioni che,
ricorrendo all'arbitrato, deve ristabilire ordine, sicurezza e
dialogo tra le nazioni.
Purtroppo il nuovo organismo sovranazionale nasce già con
delle profonde contraddizioni: prima fra tutte l'esclusione
iniziale dei paesi sconfitti e della Russia, decisione che limita
la rappresentatività dell'organizzazione e la sua
capacità operativa, e in secondo luogo la mancata adesione
degli Stati Uniti. Infatti l'opinione pubblica americana è
decisamente contraria al coinvolgimento del proprio paese in
vicende europee, tanto che nel marzo del 1920 il Senato è
costretto a respingere la partecipazione alla Società delle
nazioni.
Con la vittoria dei repubblicani alle elezioni del novembre 1920,
comincia per gli Stati Uniti una nuova era, passata alla storia
come stagione dell'isolazionismo, caratterizzata dal ritorno alla
cura dei propri intressi economici e continentali e dal rifiuto
dell'intervento nei problemi mondiali.
La Società delle nazioni finisce così per essere
egemonizzata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e dimostra la sua
fondamentale impotenza rivelandosi incapace di risolvere nessuno
dei conflitti intercorsi tra le due guerre mondiali.