La politica estera: i nazionalisti e la guerra di Libia
Dopo la caduta di Crispi, la politica estera italiana ristabilisce cordiali rapporti con la Francia, l'Inghilterra e la Russia. Infatti, grazie ad Emilio Visconti Venosta, ministro degli esteri dal 1896 al 1901, la Triplice Alleanza si riappropria del suo carattere difensivo, attenuando, nello stesso tempo, quella linea filotedesca seguita nel precedente decennio.
I rapporti italiani con la Francia si ristabiliscono, e nel 1898 entrambe le nazioni giungono alla firma di un nuovo trattato di commercio, che mette fine alla guerra doganale, per poi accordarsi, nel 1902, sulla divisione delle sfere d'influenza in Africa settentrionale. Con questa intesa, l'Italia si assicura il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, e la Francia ottiene piena libertà in Marocco.
I nuovi equilibri comunque creano delle tensioni: i tedeschi non accettano di buon grado il riconoscimento italiano delle aspirazioni francesi sul Marocco, e gli italiani sono abbastanza risentiti dell'annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria-Ungheria. Con l'atto di prepotenza dell'Austria-Ungheria, l'Italia si rende conto di essere la patner più debole all'interno della Triplice, e questa umiliazione provoca la nascita di forti risentimenti e la determinazione di un clima di riscossa nazionale che, oltre alla storica rivendicazione delle terre irredente, aspira ad una penetrante affermazione in campo coloniale.
In questo clima di alleanze politiche si afferma un movimento
nazionalista che, dopo essersi dotato di una propria struttura
organizzativa, si presenta alla fine del 1910 con il nome di
"Associazione nazionalista italiana".
A fianco dei nazionalisti, che auspicano il risveglio dell'orgoglio
nazionale italiano, si trovano anche gruppi di cattolici moderati
fortemente legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco
di Roma, impegnato da anni in un'opera di penetrazione economica in
terra libica.
Il momento decisivo per l'occupazione della Libia per parte
italiana arriva quando la Francia si appresta ad imporre il suo
protettorato sul Marocco.
Il governo italiano invia un contingente di 35.000 uomini,
suscitando immediatamente la reazione dell'Impero turco, che
esercita sui quei territori una sovranità poco più
che nominale.
Col passare del tempo la guerra diventa difficile e stancante,
rivelandosi molto più lunga del previsto.
D'altra parte la resistenza araba si presenta abbastanza tenace,
costringendo gli italiani a portare avanti una guerriglia e non uno
scontro frontale. L'Italia, non solo deve intensificare il suo
corpo di spedizione, ma anche spostare il teatro di guerra verso il
Mare Egeo, occupando l'isola di Rodi e l'arcipelago del
Dodecanneso. Dopo tante resistenze, i turchi acconsentono a firmare
la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità politica
sulla Libia, ma conservando a favore del sultano l'autorità
religiosa sulle popolazioni musulmane.
Intanto l'Italia deve fare i conti con delle forti ripercussioni
economiche e ammettere, nello stesso tempo, che la conquista della
Libia è stato un pessimo affare.
La vicenda dell'occupazione della Libia è vissuta dalla maggioranza degli Italiani con trepidazione e forte entusiasmo, ma anche questa volta non mancano le forti opposizioni dei socialisti, dei repubblicani, dei radicali e di intellettuali, tra cui spicca la figura di Gaetano Salvemini.
Partito socialista italiano: riformisti e rivoluzionari
Con la svolta liberale di inizio '900, i deputati e i dirigenti del Psi appoggiano la nuova politica di Giolitti. Il grande sviluppo delle associazioni operaie dà ragione a quanti come Turati, Bissolati e Prompolini sono convinti che l'atteggiamento di collaborazione con la borghesia progressista possa portare dei vantaggi al movimento operaio. All'interno però del Psi, tali opinioni non sono appoggiate dai socialisti rivoluzionari, che considerano deprecabile la vera natura dello Stato, sempre pronto, in caso di conflitti, a rivolgere contro i lavoratori la forza pubblica.
Nell'aprile del 1904, si tiene un primo congresso a Bologna,
dove le correnti rivoluzionarie riescono a strappare ai riformisti
la vittoria, e quindi la dirigenza del partito. Più tardi, e
precisamente nel settembre dello stesso anno, una protesta,
scatenatesi per un ennesimo eccidio, sfocia nel primo sciopero
generale della storia d'Italia. Anche in questa circostanza,
Giolitti rimane fedele al suo metodo, lasciando che la
manifestazione si stemperi da sola e utilizzando poi il malcontento
dell'opinione pubblica come arma per arrestare le correnti di
sinistra durante le elezioni di novembre.
Intanto, con la fondazione della "Confederazione Generale del
Lavoro" (1906), i rivoluzionari perdono posizione all'interno del
partito, tanto da esserne definitivamente allontanati nel 1907.
Pur riprendendo il controllo del partito, i riformisti si
disgregano a causa di una tendenza revisionista che fa capo a
Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi. Bonomi, ispirandosi alle
teorie di Bernstein, prospetta la trasformazione del Psi in un
partito del lavoro privo di connotazioni ideologiche e disponibile
ad una collaborazione con le forze democratico-liberali di governo.
Purtroppo questa riappacificazione non dura a lungo sia a causa
delle dissidenze ideologiche con il governo, sia per i contrasti
dovuti all'opposizione dello stesso Bonomi all'impresa libica.
Nel 1912, il congresso di Reggio Emilia affida alle mani degli intrasingenti la guida del partito in cui si inizia a distinguere la figura di un giovane agitatore romagnolo: Benito Mussolini.
Intanto, la esclusione dei riformisti di destra determina la fondazione di una nuova coalizione, che decide di denominarsi: "Partito socialista riformista italiano".
Il "Patto Gentiloni" e la crisi del sistema giolittiano
Nel corso dell'età giolittiana, anche il movimento
cattolico conosce un sostanziale incremento e notevoli
trasformazioni, che lo portano ad occupare una posizione di
relativo rilievo all'interno della società.
Il leader del movimento è un sacerdote marchigiano, Romolo
Murri, che prima milita tra gli intrasigenti e poi abbraccia le
posizioni riformatrici e progressiste. Purtroppo i rapporti tra
Murri e il Papa Pio X, non sono buoni, tanto è vero che lo
stesso Murri viene sconfessato e sospeso dal sacerdozio per aver
rifiutato di sottostare alle direttive pontificie.
Nonostante la condanna di Murri, il movimento sindacale continua a
svilupparsi e nel 1910 si contano ben 375 leghe bianche,
concentrate in Lombardia e nel Veneto.
Nel Cremonese, invece, Guido Miglioli riesce a promuovere una serie
di leghe analoghe alle organizzazioni rosse, mentre in Sicilia,
Luigi Sturzo è designato come il capo di un movimento
cattolico contadino.
Sul versante politico i vescovi e il papa, preoccupati dei
contemporanei avvenimenti francesi e dei progressi delle forze
laiche e socialiste, favoriscono i movimenti di tendenza clerico
moderate, che a loro volta stabiliscono alleanze elettorali con i
liberali.
Tale linea politica trova piena consacrazione nelle elezioni del
novembre 1913, e più precisamente col patto Gentiloni, che
prevede da parte dei militanti dell' "Unione elettorale cattolica"
l'appoggio di candidati liberali. Il famoso patto vincola i
liberali al rispetto di un programma che prevede la tutela
dell'insegnamento privato, il riconoscimento delle organizzazioni
sindacali cattoliche e l'opposizione al divorzio.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, il sistema politico si
presenta molto più frammentato in una serie di movimenti e
partiti politici che rendono la mediazione di Giolitti sempre
più difficile e inefficace.
Nel maggio del 1914, Giolitti rassegna le dimissioni e indica al
re, come suo successore, Antonio Salandra, uno dei leader della
destra liberale.
In realtà la candidatura di Salandra nasconde ancora una
volta la convinzione di Giolitti di poter ritornare a capo di un
ministero orientato a sinistra. Ma questa volta le sue strategie
non gli danno ragione e le sue previsioni si rivelano illusorie
soprattuto a causa della nuova ventata politica che si respira in
Italia.
Tra i sintomi più evidenti di questo nuovo cambiamento
politico, abbiamo la cosiddetta settimana rossa del giugno 1914: la
morte di tre dimostranti in uno scontro con la forza pubblica,
durante una manifestazione antimilitarista, provoca lo scatenarsi
di una serie di scioperi e di agitazioni in tutto il paese.
Certamente, con lo scoppio della prima guerra mondiale, gli echi
dei problemi interni e della settimana rossa si spengono
improvvisamente e l'attenzione si concentra su qualcosa che
sconvolgerà l'intero assetto europeo. Naturalmente la grande
guerra segna in maniera irreversibile la crisi del giolittismo che
si rivela inadeguato a fronteggiare le tensioni della moderna
società.